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Riscaldamento globale e cambiamenti climatici: la sfida che non possiamo perdere

Ieri in tutto il mondo si è svolta la Marcia per il clima. A Parigi è stata vietata per motivi di sicurezza, ma chi voleva scendere in piazza non ha rinunciato a usare le proprie scarpe: in Place de la Republique, attivisti e semplici cittadini hanno allineato in silenzio mocassini, stivaletti e molto altro dando via a una protesta silenziosa in occasione dell’apertura di COP-21, la conferenza mondiale sul clima che si tiene nella capitale francese, a sole due settimane dalle stragi del Bataclan e dei ristoranti del centro parigino.

Nel pomeriggio a Place de la République gruppi di attivisti hanno tentato un corteo e sono stati fronteggiati dalla polizia, che ha anche sparato alcuni lacrimogeni e ha effettuato alcune cariche. I dimostranti hanno lanciato oggetti e bottiglie di vetro contro gli agenti che hanno comunque evitato lo scontro più pesante. Un centinaio di persone sono state fermate.

Qui alcuni “momenti” della giornata raccolti da Twitter:

PARIGI, SUMMIT SUL CLIMA ALL'INDOMANI DEGLI ATTENTATI

di Andrea Zitelli

Un paese “in guerra”. Così la Francia si prepara, dopo le stragi terroristiche del 13 novembre scorso, a ospitare fino all’11 dicembre la COP-21, la conferenza mondiale sul clima: annullata la marcia ufficiale, su 400 iniziative ai margini della conferenza oltre 300 sono state cancellate, denunciate anche perquisizioni a militanti ambientalisti. Una città, Parigi, che in un vero e ufficiale “stato di emergenza” accoglierà 150 capi di Stato e oltre 40.000 delegati per uno degli eventi politici più importanti in cui sono attese decisioni basilari per la “salute” della Terra e quindi di tutti gli esseri che la abitano.

E proprio per questi motivi, il rischio, scrive Lou Del Bello su The Independent, è che «Parigi nel 2015» sarà «ricordata per un motivo differente», con «la minaccia del cambiamento climatico» quasi sottovalutata. Ma proprio l’importanza di questo evento era stata sottolineata dal presidente della Repubblica francese, Francois Hollande, a ottobre di appena un anno fa, in un discorso “verso la conferenza delle Nazioni Unite sul Clima 2015”:

Credevamo di avere del tempo a disposizione ma oggi c’è urgenza. La concentrazione del CO2 nell’atmosfera ha battuto un nuovo record nel 2013. Gli sregolamenti climatici non sono più un’ipotesi ma una certezza. Il riscaldamento climatico minaccia la pace e la sicurezza. È all’origine di più spostamenti di popolazione di quelli provocati dalle guerre. Deve essere quindi attuato tutto per ridurre fortemente le emissioni mondiali di gas ad effetto serra, al fine di contenere l’innalzamento della temperatura media del globo terrestre sotto i 2°C.

Pochi giorni fa, lo stesso Hollande ha dichiarato che la 21 conferenza della parti a Parigi sarà la «migliore risposta al terrorismo».

Parigi, le sfide di COP-21

Sulla COP-21, organizzata dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), le aspettative sono alte. Anche la Commissione europea è convinta che «l’accordo globale sarà raggiunto» e che «conterrà sicuramente degli impegni vincolanti». Obiettivo che ormai da circa 20 anni, ogni anno, nell’occasione di questi summit è stato ricercato è quello di «contenere il riscaldamento globale entro i due gradi e per farlo servirà aumentare nei prossimi anni gli impegni di riduzione delle emissioni di CO2 attualmente messi sul tavolo da oltre 170 Paesi».

Miguel Arias Cañete, responsabile del Clima della Commissione Europea, ragionando sul fatto che Stati Uniti e Cina sono contrari a un accordo inderogabile, spiega come «non solo l’Ue – riporta l’Ansa – ma anche molti Paesi in via di sviluppo, dalle isole del Pacifico al gruppo africano, vogliono un accordo vincolante».

Ma non sono attese solo le mosse di America e Cina che producono insieme il 45% di tutte le immissioni inquinanti del mondo – anche se gli Usa hanno promesso che entro il 2025 taglieranno un 26-28% delle loro attuali emissioni e la Cina, in un accordo firmato a novembre 2014, si è impegnata a ridurre le emissioni dopo aver raggiunto il picco nel 2030 – ma anche dell’India che, scrive Stefania De Francesco, «si è detta contraria a un accordo per combattere i cambiamenti climatici che includa l’impegno globale a eliminare gradualmente i combustibili fossili entro la fine del secolo».

«L’India – spiega ancora la giornalista – dipende dal carbone per la maggior parte del suo approvvigionamento energetico e, nonostante gli impegni ad ampliare l’utilizzo di fonti rinnovabili, afferma che la sua economia è troppo piccola e la sua popolazione troppo povera per porre fine al combustibile fossile così presto». E per questo Justin Rowlatt, su BBC News, si domanda se «l’incontro sul clima di Parigi può vincere la sfida indiana».

La cosa più importante sul riscaldamento globale è la seguente. Se gli esseri umani sono responsabili della maggior parte dei cambiamenti climatici saranno gli scienziati a stabilirlo, ma è nostra responsabilità lasciare alle generazioni future il pianeta in una condizione migliore di come lo abbiamo trovato.

(Mike Huckabee)

COS'È IL RISCALDAMENTO GLOBALE

di Antonio Scalari

Il riscaldamento globale è l’aumento della temperatura media annua dell’aria sulla superficie del pianeta. Per poter verificare l’andamento della temperatura media nel corso del tempo è necessario effettuare numerose misurazioni in diversi luoghi. I registri più completi delle misurazioni strumentali della temperatura risalgono alla metà del XIX secolo e a queste, dagli anni ’70 del secolo scorso, si sono aggiunte le rilevazioni effettuate dai satelliti. È possibile ricavare una stima della temperatura in epoche lontane dall’analisi dei sedimenti nei laghi e negli oceani e dei campioni di ghiaccio e dagli studi sugli anelli di accrescimento degli alberi, sui coralli e i pollini fossili. I dati raccolti fino ad oggi mostrano che dal 1880 al 2012 la temperatura media annua è aumentata di 0.85 gradi centigradi e che la gran parte dell’aumento si è verificata dalla metà degli anni ’70. Più del 90% dell’aumento della temperatura globale si è verificato negli oceani, in particolare nei primi 700 metri di profondità.

Secondo il Goddard Institute for Space Studies della NASA nove dei dieci anni anni più caldi in epoca moderna si sono concentrati dal 2000 ad oggi. Il 2014 è stato l’anno più caldo registrato finora ma è molto probabile che sia destinato a cedere il primato all’anno in corso. Secondo l’analisi della National Oceanic and Atmospheric Administration americana lo scorso ottobre, come i cinque mesi precedenti, ha superato la temperatura media di riferimento, con un valore medio globale delle superfici terrestri e oceaniche superiore di 0,98 gradi rispetto alla media del XX secolo.

Il fatto che in certe aree del pianeta si possano sperimentare temperature inferiori alle medie non è incompatibile con l’esistenza del riscaldamento globale, dal momento che ciò che definisce questo fenomeno è l’aumento della temperatura media su tutto il pianeta, dove esiste una variabilità di climi e condizioni ambientali. Anche eventuali rallentamenti nell’aumento della temperatura o variazioni nel breve periodo non smentiscono l’esistenza del riscaldamento globale perché quello che lo dimostra è la tendenza nel lungo periodo, che evidenzia un costante aumento della temperatura media annuale da più di un secolo. Questa tendenza va distinta anche da fenomeni ciclici come El Niño, il riscaldamento delle acque dell’Oceano Pacifico centro-orientale che si verifica a intervalli irregolari, ogni 3-7 anni.

Cosa differenzia l'attuale riscaldamento globale da altri cambiamenti avvenuti in passato?

Durante la storia della Terra si sono verificate numerose oscillazioni della temperatura media globale. Durante il Quaternario, il periodo in cui stiamo vivendo, iniziato 2,5 milioni di anni fa, si sono succeduti diversi cicli di glaciazione, seguiti da fasi interglaciali come quella attuale. I periodi glaciali del passato sono un riferimento utile a comprendere cosa possano significare anche variazioni apparentemente modeste della temperatura del pianeta. Un aumento di meno di un grado centigrado può sembrare poco rilevante ma durante l’ultima glaciazione, terminata circa 12.000 anni fa, la temperatura media globale era di appena 4 o 5 gradi inferiore a quella di oggi. È stato calcolato che, alle attuali condizioni, entro il 2.100 la temperatura media potrebbe arrivare a essere di quasi cinque gradi superiore a quella registrata oggi.

Anche durante il periodo interglaciale in corso la temperatura media della Terra non è rimasta costante, ma l’attuale riscaldamento globale è avvenuto a una velocità molto maggiore che in passato, soprattutto rispetto ai periodi glaciali preistorici. La transizione che ha portato alla fine dell’ultima era glaciale si è svolta nell’arco di migliaia di anni, mentre l’aumento, rilevato oggi, di quasi un grado della temperatura è avvenuto in poco più di un secolo. Ma a distinguere l’attuale riscaldamento globale da ciò che è successo in passato sono anche le sue cause.

Quali sono le cause del riscaldamento globale?

Il clima della Terra è un sistema complesso e il suo funzionamento è il risultato dell’interazione tra diverse componenti: l’atmosfera, l’idrosfera (l’insieme delle acque superficiali e sotterranee), le terre emerse (e il loro utilizzo da parte dell’uomo), la criosfera (le superfici ricoperte dai ghiacci, le calotte polari, i ghiacciai e il suolo congelato come il permafrost) e la biosfera terrestre e marina. A questo si somma l’influenza di fattori esterni in grado di determinare fluttuazioni periodiche, anche consistenti, del clima. L’attività del Sole va incontro a variazioni cicliche, in media ogni 11 anni, che aumentano o diminuiscono la quantità di radiazione solare emessa. Su una scala temporale più lunga (decine e centinaia di migliaia di anni), la quantità di radiazione solare che arriva sulla Terra risente di alcuni cambiamenti dell’orbita terrestre. Inoltre, alcune eruzioni vulcaniche di grande intensità possono modificare il clima globale. È ciò che accadde nel 1815 quando, a seguito dell’eruzione del Monte Tambora in Indonesia, venne espulsa nell’atmosfera una quantità di ceneri, polveri e gas tanto grande da causare un anomalo abbassamento delle temperature nel corso dell’anno successivo (il cosiddetto “anno senza estate”).

Ma anche le attività umane possono esercitare un’influenza sul clima. Ed è ciò che è avvenuto nell’ultimo secolo. Numerose evidenze scientifiche, infatti, indicano che la principale causa dell’attuale riscaldamento globale è l’aumento della concentrazione atmosferica di alcuni gas, già emessi da fonti naturali, in particolare dell’anidride carbonica (CO2). L’innalzamento dei livelli di CO2 è provocato in massima parte dalla combustione del carbone, dei combustibili di origine fossile e dei carburanti derivati, per la produzione di energia, i trasporti e diverse attività industriali.

L’anidride carbonica è capace di assorbire la radiazione infrarossa emessa dalla Terra e dall’atmosfera e quindi di intrappolare il calore all’interno dell’atmosfera stessa. Questo fenomeno, chiamato effetto-serra, fa sì che la Terra sia abbastanza calda da permettere l’esistenza della vita, almeno per come la conosciamo, ma se diventa troppo intenso genera un eccesso di calore sul pianeta. Tra i gas serra presenti nell’atmosfera il più abbondante è il vapore acqueo. Oltre alla CO2 un importante gas serra è il metano, le cui principali fonti antropiche originano dall’estrazione, produzione e utilizzo di combustibili fossili, dagli allevamenti intensivi e dalle discariche. Altri composti sono l’ossido di diazoto, emesso in atmosfera attraverso l’utilizzo di fertilizzanti agricoli azotati, e i gas fluorati, non presenti in natura, come gli idrofluorocarburi impiegati come refrigeranti.

Dalla Rivoluzione Industriale a oggi l’utilizzo di combustibili fossili è stata la principale causa dell’aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera. La concentrazione di CO2 è passata dai livelli pre-industriali di 280 parti per milione (ppm) alle 398 registrate lo scorso ottobre. Le analisi effettuate su campioni di ghiaccio raccolti in Antartide dimostrano che la concentrazione atmosferica di anidride carbonica è oggi la più alta da almeno 800.000 anni . Secondo l’ultimo rapporto del Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) la metà circa delle emissioni antropiche di CO2 dal 1750 al 2011 è avvenuta negli ultimi 40 anni.

Le evidenze che dimostrano l’aumento della temperatura del pianeta e della concentrazione dei gas serra costituiscono una conferma empirica delle ipotesi elaborate in passato. Il primo a suggerire l’esistenza dell’effetto serra fu, nel 1824, il matematico e fisico francese Joseph Fourier, che intuì che la Terra si sarebbe raffreddata se non fosse esistito qualcosa, come l’atmosfera che la circonda, capace di impedire la dispersione del calore assorbito dal Sole. Nel 1859 John Tyndall scoprì che il vapore acqueo e l’anidride carbonica sono gas capaci di intrappolare il calore e nel 1896, per la prima volta, lo scienziato svedese Svante Arrhenius stimò l’effetto sulla temperatura globale di un aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera. Arrhenius calcolò che un raddoppio della concentrazione di CO2 avrebbe fatto aumentare la temperatura di 5 o 6 gradi centigradi.

Il cambiamento climatico non tiene conto dei confini; non tiene conto di chi sei – ricco o povero, piccolo o grande. Perciò la chiamiamo ‘sfida globale’, perché richiede una solidarietà globale.

(Ban Ki-Moon)

Si ritiene che un raddoppio della concentrazione di anidride carbonica potrebbe causare un aumento dai 2 a i 4,5 gradi della temperatura. Le stime di Arrhenius erano leggermente superiori a quelle elaborate in tempi più recenti, ma la concentrazione di anidride carbonica è aumentata molto più velocemente di quanto si pensasse alle fine del XIX secolo. Alcuni hanno sostenuto la tesi che il riscaldamento globale non sia provocato dalle attività umane ma sia da imputare ad altri fenomeni, come le variazioni periodiche dell’attività del Sole. Ma i dati dimostrano che negli ultimi 30 anni la quantità di radiazione solare emessa si è mantenuta costante, mentre la temperatura della Terra ha continuato ad innalzarsi.

La temperatura media globale continuerebbe a rimanere elevata per secoli, anche se si interrompesse subito qualsiasi emissione di gas serra. E, probabilmente, la loro concentrazione nell’atmosfera continuerebbe a rimanere superiore a quella dell’età pre-industriale per migliaia di anni.

Quali sono le conseguenze del riscaldamento globale?

Come dimostrano le glaciazioni avvenute in passato, la temperatura della Terra ha uno stretto rapporto con il suo clima. Tanto che l’espressione “cambiamenti climatici”, entrata nel linguaggio corrente, viene spesso utilizzata come sinonimo di riscaldamento globale, sebbene, in effetti, i primi siano una conseguenza del secondo. Se l’aumento della temperatura media è globale, i cambiamenti climatici possono manifestarsi con fenomeni di natura differente a livello locale.

L’aumento della temperatura media è esso stesso un’espressione del cambiamento climatico. Nell’ultimo decennio si sono verificate ondate di calore più intense che in passato in diversi continenti, tra cui l’Europa. Secondo alcuni studi, si registrano estremi massimi di temperatura con una frequenza cinque volte maggiore di quella attesa in assenza del riscaldamento globale. Secondo l’ultimo rapporto dell’IPCC, è molto probabile che le attività umane responsabili dell’aumento della temperatura abbiano contribuito al cambiamento della frequenza e dell’intensità delle ondate di calore dalla metà del XX secolo. Nel complesso, potrebbe esserci stata una diminuzione del numero di giorni freddi, insieme a un aumento del numero di giorni caldi.

Paradossalmente, l’innalzamento della temperatura globale potrebbe determinare anche la diminuzione delle temperature medie in alcune aree geografiche. Gli effetti sulla circolazione atmosferica e le correnti oceaniche potrebbero essere all’origine degli inverni particolarmente freddi che si sono verificati negli ultimi anni negli Stati Uniti orientali e nella regione dei Grandi Laghi. Ma le evidenze non sono ancora chiare e, secondo alcuni studi, non ci sarebbe alcuna correlazione con i cambiamenti climatici.

È possibile che al riscaldamento globale siano da imputare i cambiamenti nella frequenza e nell’intensità di alcuni fenomeni climatici e meteorologici estremi, anche se in un contesto di variabilità regionale. L’aumento della temperatura nell’atmosfera a livello degli oceani, insieme con l’aumento dell’umidità dell’aria, potrebbe creare le condizioni favorevoli per la generazione di forti uragani, fornendo l’energia per la formazione di venti potenzialmente più intensi. Sebbene esistano segnali di un aumento, negli ultimi decenni, del numero e dell’intensità delle tempeste tropicali in alcune aree, come l’Oceano Atlantico settentrionale, rimane complesso stabilire una correlazione diretta tra questi fenomeni e i cambiamenti climatici e i dati non permettono ancora di trarre conclusioni definitive.

Più evidenti sono le conseguenze per gli oceani e i ghiacci del pianeta. Dal 1979 la superficie dei ghiacci dell’Artico a settembre, quando raggiunge il minimo, ha continuato a restringersi al ritmo del 13,3% per decade, toccando nel 2012 i 3,6 milioni di chilometri quadrati, il valore più piccolo da quando vengono effettuate le rilevazioni satellitari. Le previsioni indicano che da qui a vent’anni il Mar Glaciale Artico potrebbe rimanere completamente privo di ghiacci in estate.

I dati documentano anche il calo delle superficie di diversi ghiacciai di montagna, dalle Alpi alle Montagne Rocciose.

Lo scioglimento del ghiaccio in diversi luoghi del pianeta, come in Groenlandia e in Alaska, determina l’innalzamento del livello dei mari, che procede al ritmo di più di 3 millimetri l’anno, grazie anche all’effetto di espansione termica provocato dall’aumento delle temperature. Alcuni scenari indicano che il livello medio dei mari potrebbe aumentare di un metro da qui al 2100. L’innalzamento dei mari rappresenta una minaccia per le popolazioni costiere, perché espone le aree abitate al rischio di rimanere sommerse all’arrivo di tempeste e uragani. Il 2,6% della popolazione mondiale vive in aree che potrebbero subire inondazioni ricorrenti, da qui al 2100, ma il numero di persone a rischio potrebbe essere molto maggiore.

La capacità degli oceani di assorbire l’anidride carbonica atmosferica ha l’effetto di innalzare il livello di acidità dell’acqua, che si stima sia aumentato del 26% dall’epoca della Rivoluzione Industriale a oggi. Questo fenomeno ha conseguenze particolarmente gravi per gli organismi marini dotati di scheletri di carbonato di calcio, come i coralli. L’acidificazione degli oceani sta intaccando le barriere esistenti ma sta anche indebolendo la capacità dei coralli di costruirne di nuove. I danni arrecati alle barriere coralline sono solo un esempio della minaccia che il riscaldamento globale rappresenta per la biodiversità del pianeta. Entro la fine del secolo il 16% delle specie potrebbe essere a rischio di estinzione a causa dei cambiamenti climatici.

GLI IMPATTI SOCIALI DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO

di Angelo Romano

«Con la crisi dei migranti in arrivo in Europa dalla Siria e da altri paesi in Asia e in Africa, il tema dei migranti ambientali assume un ruolo di ancora maggiore attenzione». Con queste parole, Saleemul Huq, direttore dell’International Center for Climate Change and Development (ICCCAD) ha introdotto uno dei nodi centrali della Conferenza sul Clima di Parigi: le migrazioni come strumento di adattamento agli effetti del cambiamento climatico. Se, da un lato, sempre più persone sono costrette ad abbandonare i propri paesi perché colpiti da disastri ambientali (come uragani, inondazioni, siccità), dall’altro, le ultime conferenze sul clima, che hanno preceduto quella di Parigi, hanno individuato proprio nella migrazione pianificata una via per poter ridurre gli impatti del cambiamento climatico.

Appurato che le strategie di mitigazione (riduzione delle emissioni, ricorso a fonti energetiche alternative) non sono più in grado di prevenire il riscaldamento globale, dall’incontro di Cancun del 2010 in poi, studiosi, analisti politici, stakeholders, rappresentanti di organizzazioni internazionali hanno cercato di elaborare politiche che aiutino i paesi più vulnerabili a pianificare azioni di adattamento al degrado ambientale e di prevenzione dei disastri naturali e a immaginare un nuovo quadro normativo internazionale che dia riconoscimento alla figura dei migranti ambientali, sia quelli forzati a partire per cause legate all’ambiente sia quelli che progettano di partire dopo essersi conto di non potersi più adattare nei loro luoghi di provenienza.

L’obiettivo di fondo è quello di dare risorse materiali e strumenti formativi alle persone che vivono le aree più vulnerabili in modo tale da poter fronteggiare situazioni di degrado ambientale e poter essere in grado di partire e poi inserire nei tessuti sociali e lavorativi dei paesi di approdo.

«La strategia da perseguire» – prosegue Huq «è quella di affrontare il cambiamento climatico combinando l’educazione dei bambini e dei giovani con investimenti in infrastrutture urbane. Le persone devono essere facilitate e incoraggiate, non costrette, a partire verso altre città perché intravvedono opportunità di lavoro o di studio».

Le posizioni dei diversi esperti non sono, però, convergenti e si dividono tra chi propone di isolare e di porre al centro della discussione il tema delle migrazioni ambientali e chi, invece, è contrario a politiche che inducano agli spostamenti senza il riconoscimento della figura del migrante ambientale.

Gli impatti dei cambiamenti climatici sulle migrazioni

Secondo il rapporto Global Estimates 2015, a cura dell’Internal Displacement Moving Center, nel 2014 più di 19 milioni di persone di 100 paesi diversi sono state costrette a sfollare a causa di disastri ambientali.

Dal 2008 a oggi, la media annuale è di 26,4 milioni, l’equivalente di una persona al secondo. Le maggiori cause di spostamento sono associate, in particolare, a inondazioni. La fluttuazione significativa di anno in anno del numero di chi è costretto a spostarsi è legata a eventi rari, ma di enorme portata, che costringe ogni volta allo sfollamento di milioni di persone.

La serie storica dal 1970 al 2014 suggerisce, inoltre, che la probabilità di dover migrare per cause ambientali è del 60% maggiore di quattro decadi fa.

Il continente più colpito è l’Asia. Quasi 17 milioni di abitanti – pari al 87% del numero totale degli sfollati per cause ambientali – sono stati costretti ad andare via nel 2014. L’Europa ha visto aumentare di sette volte il numero di persone in fuga, 190.000 solo nei Balcani a causa di inondazioni. In termini assoluti l’Africa ha visto una flessione delle migrazioni ambientali, ma diversi paesi africani hanno sperimentato picchi elevati in proporzione alla popolazione. In particolare, in Sudan la stagione delle piogge ha messo in fuga 159.000 persone. In Cile, ad aprile, il rischio di uno tsunami per un terremoto in mare di magnitudo 8,2 ha messo in fuga 870.000 persone. Le misure di prevenzione adottate e i grandi investimenti nella gestione del rischio hanno fatto sì che dopo un giorno chi era fuggito potesse tornare a casa.

Cina, India e Filippine sono i paesi più vulnerabili e ad alto rischio perché interessati da fenomeni di sfollamento multipli e ripetuti quasi sempre nelle stesse aree. Nel 2014, nelle loro aree si sono verificati 15 dei 20 casi più eclatanti.

Le isole di Tonga, Haiti e Cuba, infine, sono state colpite da inondazioni, tempeste e terremoti. Un ciclone a Tonga ha provocato il secondo sfollamento di massa più elevato del 2014, pari al 5% dell’intera popolazione. Tra le isole, Haiti e Cuba hanno vissuto negli ultimi sette anni i più alti livelli di displacement sia in termini relativi che assoluti.

Secondo uno studio dello IOM pubblicato lo scorso gennaio, sono diversi i modi in cui il cambiamento climatico impatta sulle migrazioni:

1. Frequenza e intensità nel tempo di disastri naturali, sia improvvisi, sia a lenta insorgenza.

2. L’impatto negativo del riscaldamento globale, della variabilità del clima e di altri effetti del cambiamento climatico sui mezzi di sussistenza, sulla salute, sulla sicurezza alimentare e sulla disponibilità di acqua.

3. L’innalzamento del livello del mare sui paesi costieri e sulle isole che rendono quelle aree inospitali.

4. Il decremento delle risorse a disposizione che può esarcebare tensioni e portare a conflitti.

I migranti ambientali: uno status di difficile riconoscimento

Nonostante siano sempre di più gli sfollati a seguito di disastri naturali e si preveda che entro il 2050 possano spostarsi tra i 250 milioni e 1 miliardo di persone, non si riesce a raggiungere un accordo dal punto di vista giuridico sulle definizioni di migranti e migrazione ambientale.

Per quanto, sui media e su pubblicazioni accademiche, alcuni parlino di cambiamento climatico e rifugiati ambientali, non c’è un consenso scientifico sull’utilizzo di tali terminologie. È estremamente difficile isolare i cambiamenti climatici e i fattori ambientali come i soli motivi che spingono a trasferirsi. È, altresì, difficile stabilire una connessione causale tra cambiamenti climatici sul lungo periodo e il loro impatto su fenomeni di breve periodo come possono essere le migrazioni.

Infatti, se nel caso di catastrofi climatiche come inondazioni e siccità il fattore ambientale è chiaro e il movimento è chiaramente forzato, il cambiamento climatico non può essere designato specificamente come la causa della migrazione.

Per quanto gran parte degli studiosi concordino sul fatto che il cambiamento climatico aumenterà frequenza e intensità di catastrofi naturali, non è possibile stabilire un nesso causale tra cambiamento climatico ed eventuali disastri ambientali (come può essere un tifone) e pertanto non è possibile nemmeno parlare in maniera diretta di migranti ambientali.

La questione è molto intricata. Nel caso di processi di lento degrado ambientale, la migrazione è l’esito degli effetti congiunti di fattori economici, sociali e altri legati al cambiamento climatico. Inoltre, di fronte a un peggioramento delle condizioni climatiche, molte persone delle aree rurali sceglieranno di migrare preventivamente piuttosto che aspettare, soprattutto se vedono migliori opportunità altrove.

Tutti questi aspetti allontanano dal riconoscimento non solo dello status giuridico della figura del migrante ambientale, ma anche da un accordo sulla definizione da utilizzare. Eppure queste persone hanno bisogno di una copertura giuridica che riconosca loro diritti al pari di altri migranti.

Le implicazioni terminologiche della questione sono significative. Innanzitutto, non si può parlare di rifugiati ambientali perché il clima e gli impatti ambientali non fanno discriminazioni per la razza, la religione, la nazionalità, l’appartenenza a un particolare gruppo sociale o per le opinioni politiche, come previsto dalla Convenzione di Ginevra per lo status di rifugiato.

Nel 1998, le Nazioni Unite hanno proposto la definizione di sfollati interni, vale a dire “persone o gruppi di persone che sono state forzate o costrette ad abbandonare le proprie dimore, a causa degli effetti di disastri naturali o procurati dall’uomo, senza però varcare i confini nazionali”.

Anche questa definizione non è soddisfacente perché è utilizzabile solo nel caso in cui si riesca a dimostrare che uno sfollamento è coatto ed esclude, di fatto, tutti coloro che emigrano in altri stati.

Lo IOM ha dato, invece, una definizione non normativa di migrante ambientale:

I migranti ambientali sono persone o gruppi di persone che, a causa di cambiamenti improvvisi o a lungo termine dell’ambiente, che influenzano negativamente la loro vita o le condizioni di vita, sono obbligati a lasciare la propria dimora o scelgono di farlo, temporaneamente o definitivamente, spostandosi all’interno del loro paese o all’estero.

Così definito, il termine migrante può riferirsi sia agli spostamenti volontari che coatti, sia a quelli interni che esterni, sia temporanei che definitivi. La descrizione proposta dallo IOM non ha valore legale né garantisce dei diritti. È un tentativo di inquadrare la compessità del fenomeno che vuole descrivere.

Resta in piedi, però, la questione giuridica. In assenza di uno strumento che identifica i diritti e i relativi obblighi, diventa difficile tutelare queste persone. Non potendo arrivare a una definizione giuridicamente valida di migrante ambientale, lo IOM ha suggerito che siano i singoli Stati a individuare diritti e garanzie a partire dalle specifiche condizioni ambientali, estendendo il concetto di protezione umanitaria.

E chi non riesce a partire?

Concentrandosi escusivamente sui migranti ambientali, vengono escluse dalle analisi sull’impatto sociale del cambiamento climatico quelle figure che più sono colpite dai disastri ambientali, ovvero chi non è in grado di spostarsi.

Il Government Office for Science della Gran Bretagna ha parlato, a tal proposito, di trapped population, popolazione in trappola. Si tratta di “persone che non migrano, pur vivendo in zone sotto minaccia […] a rischio di restare intrappolati ed essere ancora più vulnerabili all’impoverimento e agli effetti del degrado ambientale”. Questo vale in particolare – spiega ancora lo studio – per le famiglie più povere che non possono avere le risorse per muoversi e la cui sussistenza è dipendente dai cambiamenti ambientali.

L’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ha introdotto il concetto di vulnerabilità. Tale concetto consente di andare meglio al cuore delle questioni in campo (l’impatto dei fattori ambientali e la capacità di sapersi adattare) e di non escludere dalle analisi quelle figure che più sono colpite dai disastri ambientali: i più vulnerabili sono proprio quelle persone che non sono in grado di spostarsi e figure meno protette come i bambini, le donne, gli anziani.

Per valutare la vulnerabilità di un territorio o di un gruppo sociale – si legge nel report dell’IPCC – si presterà attenzione ad aspetti come la pressione demografica, i modelli di sviluppo, le azioni intraprese dai governi e dalle comunità per mitigare e adattarsi al cambiamento climatico. A livello individuale, intervengono altri fattori, come la consapevolezza delle risorse a disposizione e la percezione di opportunità di sostentamento altrove.

Le politiche sulla migrazione ambientale

Il quadro legislativo delle politiche sulle migrazioni ambientali è piuttosto frammentato. Non c’è ancora una cornice trans-nazionale che ponga al centro la relazione tra cambiamento climatico e migrazioni.

A livello internazionale, l’Unione Africana ha fatto da pioniere nell’inclusione delle tematiche ambientali rispetto alle politiche sulla migrazione. Nel suo Migration Policy Framework for Africa, adottato nel 2006 in Gambia, vengono riconosciuti i fattori ambientali tra i vettori delle migrazioni di massa e degli spostamenti interni, dei movimenti dei migranti, delle migrazioni dalla campagna alla città e oltre i confini degli stati. Il documento chiedeva che gli stati tenessero conto di tali aspetti nelle politiche migratorie regionali e nazionali e intraprendessero misure per prevenire disastri naturali e il degrado ambientale.

In Europa, il Global Approach to Migration and Mobility (GAMM), redatto nel 2013, fa esplicito riferimento al nesso migrazioni-clima. Tuttavia, si tratta di posizioni ancora al loro stato embrionale e non vincolanti per gli Stati.

In assenza di un quadro generale che faccia da cornice agli interventi su scala locale, spesso i singoli Stati si sono mossi con iniziative ad hoc, senza una strategia a lungo termine, in risposta a disastri naturali o per far fronte a momenti di crisi, concentrando i propri interventi sul controllo delle frontiere e dei flussi migratori dalle aree rurali a quelle urbane o su particolari figure come nel caso dei migranti forzati. È questo il caso, ad esempio, degli Stati Uniti, che nel 2012 hanno concesso permessi di lavoro temporaneo ad haitiani poco qualificati come sostegno dopo il terremoto del 2010.

Interventi più strutturali sono stati quelli dell’Asian Development Bank, che ha raccomandato di usare i correnti canali migratori per i migranti ambientali e fare della mobilità uno strumento di resilienza dei territori, o di Kiribati, isola dell’Oceania che rischia la scomparsa a causa del riscaldamento globale, che ha definito un piano di migrazione, avviando politiche di alta formazione dei suoi abitanti in modo tale da consentire un inserimento più facile nel tessuto sociale e occupazionale di altri stati.

Rispetto alle figure dei migranti forzati il corpus legislativo sembra essere più elaborato, senza però risultare ancora omogeneo. Per quanto le Linee Guida sugli sfollati interni elaborate dalle Nazioni Unite nel 1998 costituiscano uno degli strumenti più rilevanti in materia, la sua attuazione – a livello nazionale – è stata garantita da pochi stati. La Convenzione di Kampala (Uganda) sugli sfollati interni, entrata in vigore nel 2012, include il cambiamento climatico tra le cause di migrazione forzata riconosciute. Alcuni paesi occidentali hanno garantito forme di protezione temporanea a persone emigrate a causa di disastri naturali, la Svezia e la Finlandia hanno, invece, previsto il degrado ambientale nel proprio paese di origine tra i criteri per le richieste di asilo politico. Tuttavia, si tratta anche in questo caso di interventi ad hoc e per un periodo molto limitato di tempo.

Ridurre il danno, limitando le migrazioni forzate

L’obiettivo da seguire – scrive lo IOM sempre nel report pubblicato il gennaio scorso – è la costruzione di un quadro coerente di politiche a lungo termine sulle migrazioni ambientali, che consenta il riconoscimento degli effetti positivi della migrazione in contesti di cambiamento climatico, il rafforzamento della cooperazioni tra regioni geografiche, l’implementazione di leggi e politiche nazionali sugli sfollati, l’emendamento di leggi e politiche in materia di immigrazione, la sperimentazione di nuovi strumenti d’integrazione per la gestione dei flussi migratori legati all’ambiente, a livello locale.

A oggi, sono ancora pochi i documenti strategici così come limitate sono le capacità legislative in alcune delle aree più colpite. In assenza di uno spazio che consenta di elaborare politiche coerenti, nel migliore dei casi, si corre il rischio di un surplus normativo e, nel peggiore, di norme contraddittorie. Contestualmente, si legge sempre nel documento dello IOM, un’armonizzazione delle strategie contribuirebbe a rafforzare la resilienza delle popolazioni ai disastri, alle minacce ambientali dovute al cambiamento climatico, riducendo probabilmente i casi di migrazione forzata. È questo uno degli obiettivi emersi dal workshop specifico su Cambiamento climatico, migrazioni forzate e degrado ambientale che proprio lo IOM organizzò a Ginevra nel 2011.

È stato durante la Conferenza di Cancun del 2010 che si è cominciato a parlare di politiche che andassero verso la riduzione del rischio e ponessero al centro dell’attenzione le migrazioni, gli sfollamenti e i trasferimenti forzati indotti dal cambiamento climatico e a parlare di “migrazione e mobilità umana” come strumento di limitazione del danno e di adattamento in un quadro di “loss & damage”.

Nella definizione del Vulnerable Countries Initiative, loss (perdita) & damage (danno) sono gli effetti negativi provocati dai cambiamenti climatici, il cui impatto può essere riparato (damage) o meno (loss). Da Cancun in poi si è cercato di proporre soluzioni per ridurre i danni e le perdite dei cambiamenti climatici. Oltre ad aumentare i finanziamenti, a prevedere pianificazioni urbane che consentano di non perdere tutto (come accaduto in Cile dopo lo tsunami dell’aprile scorso), l’obiettivo è quello di ridurre le migrazioni forzate e incentivare le migrazioni pianificate come forma di adattamento. La seconda era dell’adattamento, come sostenuto dal direttore dell’ICCCAD, Saleemul Huq.

In questa direzione vanno l’Agenda Sviluppo post-2015, il framework per la riduzione del rischio di disastro ambientale post-2015, il programma del World Humanitarian Summit del 2016 e la Conferenza sul Clima di Parigi.

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Credits
Foto copertina Facebook: ONU Italia
Infografiche: ONU Italia; NASA; Internal Displacement Monitoring Center
Fotografie: Rinnovabili.it; Internal Displacement Monitoring Center
Video: wheretherainfalls.org; NASA Goddard Space Flight Center; Robert W. Corkery; Climate.gov

Progetto editoriale di Valigia Blu – pubblicato in syndication con Quotidiani locali del gruppo Espresso 


29 Novembre 2015